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Parafrasi proemio Odissea sul concilio degli dei

L’Odissea fa parte di uno dei due più grandi poemi greci di tutti i tempi, attribuiti al poeta Omero. Il poema si concentra sulle vicende dell’eroe Odisseo, chiamato anche Ulisse in versione latina, successivamente al termine della guerra di Troia raccontata nell’Illiade. Il proemio dell’Odissea viene aperto con una situazione statica del tutto opposta a quella presente nell’Illiade, dove ogni personaggio vive le proprie vicissitudini in modo del tutto improvviso.

Proemio dell’Odissea

Musa, quell’uom di multiforme ingegno/ dimmi, che molto errò poich’ebbe a terra/ gittate di Ilion le sacre torri;/ che città vide molte, e delle genti/ l’Indol conobbe; che sovresso il mare/ molti dentro del cor sofferse affanni,/ mentre a guardare la cara vita intende,/ e i suoi compagni a ricondur:ma indarno/ ricondur desiava i suoi compagni,/ che delle colpe lor tutti periro./ Stolti! Che osaro vïolare i sacri/ al Sole Iperione candidi buoi/ con empio dente, ed irritaro il nume/che de il ritorno il dì loro non addusse./ eh parte almen di sì ammirande cose/ narra anco a noi, di Giove figlia, e diva./ Già tutti i Greci, che la nera parca/ rapiti non avea, ne’ loro alberghi/fuor dell’arme sedeano, e fuor dell’onde./ Sol dal suo regno e dalla casta donna/ rimanea lungi Ulisse: il ritenea/ nel cavo sen di solitarie grotte/ la bella venerabile Calipso/ che unirsi a lui di maritali nodi/ bramava pur, ninfa quantunque, e diva./ e poiché giunse al fin, volvendo gli anni,/ la destinata degli dei stagione/ del suo ritorno a Itaca, novelle/ tra i fidi amici ancor pene durava./ tutti pietà ne risentian gli eterni,/ salvo Nettuno, in cui l’antico sdegno/prima non si stancò, che alla sua terra/ venuto fosse il pellegrino illustre. 

Parafrasi del testo

Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell’animo suo,
per acquistare a sé la vita e il ritono dei compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: a essi egli tolse il dì del ritorno.


Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.
Tutti gli altri, che scamparono la ripida morte,
erano a casa, sfuggiti alla guerra e al mare:
solo lui, che bramava il ritorno e la moglie,
lo tratteneva una ninfa possente, Calipso, chiara tra le dee,
nelle cave spelonche, vogliosa d’averlo marito.
E quando il tempo arrivò, col volgere degli anni,
nel quale gli dèi stabilirono che a casa tornasse,
a Itaca, neanche allora fu salvo da lotte
persino tra i suoi. Gli dèi ne avevano tutti pietà,
ma non Posidone: furiosamente egli fu in collera
con Odisseo pari a un dio, finché non giunse nella sua terra.
Ma Posidone era andato a trovare gli Etiopi, che stanno lontano,
gli Etiopi divisi in due parti, i più remoti tra gli uomini,
gli uni a Iperione calante, gli altri a Iperione levante,
per ricevere un’ecatombe di tori e di agnelli.


E lì seduto, si godeva il banchetto: gli altri invece
stavano insieme nelle sale di Zeus Olimpio.
E fra essi iniziò a parlare il padre di uomini e dèi:
in mente gli era venuto il nobile Egisto,
colui che il figlio d’Agamennone, il famoso Oreste, uccise.
Di lui ricordandosi, disse agli immortali così:
“Ah! quante colpe danno i mortali agli dèi!
Ci dicono causa delle loro disgrazie: ma anche da sé,
con le loro empietà, si procurano dolori oltre il segno.
Come ad esempio ora Egisto: sposò la legittima moglie
di Atride, oltre il giusto e lui, appena tornato, l’uccise,
pur sapendo della ripida morte. Perché l’avevamo avvertito,
mandandogli Ermete, l’Arghifonte di ottima vista,
di non ucciderlo, di non volerne la sposa:
“Dell’Atride sarà fatta vendetta da Oreste,
quando, cresciuto, desidererà la sua terra”.


Così Ermete gli disse, ma non piegò la mente di Egisto,
pur pensando al suo bene: e ora, tutt’insieme, ha pagato”.
Gli rispose allora la dea glaucopide Atena:
“Padre nostro Cronide, sommo tra i potenti,
in una morte fin troppo meritata egli giace:
muoia così chiunque altro faccia lo stesso.
Ma il mio cuore si spezza per il valente Odisseo,
infelice, che da tempo patisce dolori, lontano dai suoi,
in una terra circondata dall’acqua, dov’è l’ombelico del mare,
un’isola fitta di alberi, vi abita e dimora una dea,
la figlia di Atlante, pericoloso, che del mare
intero conosce gli abissi e ha le grandi
colonne che tengono la terra e il cielo divisi.


La figlia di costui trattiene l’infelice, che piange,
e sempre l’incanta con tenere e maliose
parole, perché si dimentichi d’Itaca: ma Odisseo,
che brama vedere almeno il fumo levarsi
dalla sua terra, vorrebbe morire. E il tuo cuore,
Olimpio, non si commuove? Odisseo non t’era gradito
quando presso le navi argive sacrificava,
nella vasta terra di Troia? perché, Zeus, gli sei così ostile?”
E a sua volta Zeus che addensa le nubi le disse:
“Figlia mia, che parola ti sfuggì dal recinto dei denti.
E come potrei dimenticare il divino Odisseo,
che supera per senno i mortali e offrì più vittime
agli dèi immortali che hanno il vasto cielo?


Ma Posidone che percorre la terra è sempre ardentemente
adirato per il Ciclope che egli accecò del suo occhio,
per Polifemo pari a un dio, la cui forza è grandissima
fra tutti i Ciclopi: lo generò la ninfa Toòsa,
la figlia di Forco che si cura del mare infecondo,
congiuntasi con Posidone in grotte profonde.
Da allora Posidone che scuote la terra, odisseo, no,
non l’uccide, ma lo respinge dalla terra dei padri.
Ma orsù, pensiamo noi tutti al ritorno,
noi qui, come può ritornare. Posidone deporrà
la sua collera: contro il volere degli dèi
immortali non potrà lottare da solo.”